GLI UOMINI DELLA RSI: MAZZOLINI
Storia LA TRAGICA ESTATE DEL 1943 NEI DIARI
INEDITI DI SERAFINO MAZZOLINI, IL DIPLOMATICO EUGUBINO CHE FU SOTTOSEGRETARIO
AGLI ESTERI DELLA REPUBBLICA DI MUSSOLINI "Agonia della Patria!"
E un monarchico va a Salò
Gianni Scipione Rossi
La mattina del 23 febbraio 1945, a Gargnano, il console
Alberto Mellini Ponce de Leon chiede udienza a Mussolini. Il capo della
Rsi è l’ombra di se stesso. Dimesso, insonne, malato, non si fa
più illusioni sulle sorti della guerra. Né, forse, sulle
proprie. Mellini non gli deve dare buone notizie, peraltro ormai rare.
"Alle 08.30 – gli dice – l’Ambasciatore Conte Mazzolini è deceduto".
Mussolini – racconterà Mellini nelle sue memorie ("Guerra diplomatica
a Salò", Cappelli, 1950) – "ha chinato la testa e ha detto
sommessamente: <È una grave perdita per me. Era un collaboratore
onesto, intelligente, buono e devoto, quale raramente ho avuto. Gli Esteri
perdono un Capo insostituibile e l’Italia un patriota esemplare>".
Il sottosegretario agli Esteri della Repubblica (Mussolini
deteneva l’interim del Ministero) era morto di setticemia, dovuta a una
iniezione di insulina. Aveva lavorato fino a pochi giorni prima. Il 14
aveva incontrato il maresciallo Graziani, Buffarini Guidi e il ministro
dell’Economia, Angelo Tarchi. Poi il crollo improvviso. "Non aveva
– registra Mellini – neppure lasciati fondi sufficienti per pagare le spese
dei dottori ed i piccoli conti in sospeso. Una busta soltanto nella sua
cassaforte portava la scritta: <Fondi di riserva in caso di emergenza
consegnatami dal Ministro delle Finanze d’ordine del Duce. Da riconsegnare
al Duce>". "Era – commenta Mussolini – un uomo retto ed onestissimo.
Ha sempre dato senza mai chiedere". E dispone: "Mettete il contenuto
a disposizione del Ministro delle Finanze e prendete accordi con lui, perché
i familiari siano messi in grado di pagare i conti in sospeso".
Difficile trovare tracce di Serafino Mazzolini nella
storiografia del dopoguerra. Morto alla vigilia della fine, l’"uomo
retto ed onestissimo" avrebbe probabilmente seguito Mussolini fino
a Dongo. La malattia gli ha risparmiato piazzale Loreto. E la citazione
tra i gerarchi "repubblichini" dati in pasto alla Liberazione.
Forse un atto di giustizia della storia, per lui che repubblicano non era
mai stato. Anche se, eugubino di adozione, dopo essere stato tra i protagonisti
del nazionalismo marchigiano nel secondo decennio del secolo scorso, gli
spetta di diritto il ruolo di co-protagonista del fascismo umbro. Solo
un passo indietro rispetto all’assisano Tullio Cianetti e al perugino Giuseppe
Bastianini. Ma Mazzolini nasce, appunto, nazionalista, e monarchico. Nel
1911 aveva fondato la sezione nazionalista di Macerata. Avvocato e giornalista,
dirige "L’Unione"; interventista, parte volontario per la Grande
Guerra. Rientra ad Ancona, dove sarà consigliere comunale e provinciale,
e direttore del "Corriere Adriatico". Non manca l’avventura dannunziana:
raggiunge Fiume con un Mas "sequestrato" in porto alla Marina.
Poi la marcia su Roma, la vice segreteria del Pnf, in quota Federzoni,
si direbbe oggi. E ancora deputato e membro del Gran Consiglio nel 1924.
Fino all’ingresso, nel 1928, in diplomazia. Brasile, Uruguay, Egitto, Montenegro.
Mazzolini tra un impegno all’estero e l’altro è a Gubbio. Dove vivono
la sorella, i fratelli e i nipoti, la famiglia di un celibe impenitente
che fa carriera "nonostante" le leggi sul celibato. E dove il
nipote Cesare – "Cesarino" – Minelli, con lui a Salò,
riporta nel 1945 documenti, carte, filmati, e i suoi diari, rimasti inediti
fino a ora. Salvo poche pagine utilizzate da Mellini Ponce de Leon, il
diplomatico – anch’egli monarchico – che a Salò lavorava nella sua
segreteria. Carte oggi riordinate con passione storiografica da Giacomo
Monacelli, bisnipote di Mazzolini.
Ed è da Gubbio che Serafino Mazzolini, prima
di accettare da Mussolini la nomina a segretario generale degli Affari
Esteri della Repubblica, non senza avergli chiarito di restare monarchico,
sia pure profondamente deluso dalla "fuga" del Re a Brindisi,
sostanzialmente osserva la fine del regime, il governo di Badoglio, infine
l’8 settembre. Con partecipazione e angoscia crescenti per la sorte della
"Patria".
È l’estate dell’incertezza, dello sbandamento.
Sono i mesi in cui maturano, spesso casualmente e persino paradossalmente
– come nel caso di Mazzolini – scelte di campo opposte sul fronte della
guerra civile che sta per cominciare. Un altro fascista-monarchico, Camillo
Giuriati, rifiutò l’incarico agli Esteri accettato da Mazzolini.
Per non dire, tra i tanti, del grande storico medievista e contemporaneista
Gioacchino Volpe, con Giovanni Gentile forse l’intellettuale più
organico al regime, che in quei frangenti, al contrario del filosofo, scelse
la fedeltà dinastica e si ritirò a Sant’Arcangelo di Romagna,
senza aderire né alla Rsi né al Regno del Sud. E d’altra
parte lo stesso fratello maggiore di Serafino, Quinto Mazzolini, anch’egli
diplomatico, entra nel governo Badoglio, come capo di gabinetto del ministro
Carlo Galli, e nel dopoguerra resta in carriera alla Farnesina.
Sono mesi in cui la tragedia nazionale spacca il
paese e divide le famiglie. Sono i mesi in cui si diffonde il sentimento
della "morte della patria", per usare la contestata ma opportuna
espressione di Renzo De Felice ("Rosso e Nero", Baldini e Castoldi
1995) che tanto dibattito ha alimentato in questi anni.
In questo senso il diario di Mazzolini, particolarmente
importante sotto il profilo storiografico perché, necessariamente
immune da revisioni e ripensamenti posteriori, chiarisce bene quali fossero
clima, sentimenti, paure di quella lunga estate di 61 anni fa. Il ministro
plenipotenziario vive la crisi di luglio da un osservatorio privilegiato.
È direttore generale del ministero degli Esteri, con la responsabilità
del personale. A Roma frequenta i vertici del regime. Sa che la seduta
del Gran Consiglio convocata per il 24 si annuncia importante. Nella notte
vede Bastianini e Alfieri, due tra i sostenitori dell’ordine del giorno
Grandi. Ma non si aspetta che Vittorio Emanuele accetti le dimissioni di
Mussolini. Il suo commento è amaro: "La folla si dà
a manifestazioni di giubilo che lacerano il cuore. Che ne sarà della
patria? Le preoccupazioni personali sono l’ultimo dei miei pensieri. Per
me finisce un mondo che è stato tutto per me e per il quale ho sempre
dato tutto". Parole chiare. Che tradiscono l’angoscia del momento
e l’incertezza delle prospettive per l’Italia della "guerra che continua",
come dice Badoglio. E come gli italiani credono. Già il 5 agosto
a Mazzolini diventa chiarissimo che non sarà così. Glielo
dice il figlio di Badoglio, Mario: il padre è "animato da ferma
volontà di condurre il Paese nelle migliori condizioni alla pace".
Il giorno prima Mazzolini aveva annotato con amarezza: "Il Governo
ha deciso di controllare le ricchezze accumulate da ex gerarchi dal 1922
in avanti. Buona iniziativa. Ma i grossi problemi che sono sul tappeto
sfuggono alla massa che gioisce per la riconquistata libertà e non
pensa che invece essa è minacciata dal nemico. Mi domando perché
chi ha organizzato tutta questa buffonata, non lo ha fatto nel 1938 al
rientro di Mussolini da Monaco e comunque perché ha aspettato 20
lunghi anni! Spero un domani prossimo di avere una risposta che rifugga
tutti i miei dubbi".
Nessuno scioglierà i dubbi di Mazzolini. Che
il 30 luglio era stato confermato nell’incarico dal nuovo ministro degli
Esteri, Raffaele Guariglia. Una conferma che non dura due settimane. È
a Gubbio, il 12 agosto, quando gli comunicano la rimozione. Torna a Roma
per lo scambio di consegne. Poi di nuovo in Umbria, in attesa degli eventi.
Il 19 registra sul diario: "Prima giornata eugubina. Buon senso tra
questa brava gente. La Patria supera la parte!"
È una speranza. Ma l’angoscia cresce. "I
giornali – scrive il 22 agosto – continuano a esultare per la pace riconquistata,
come se la guerra fosse lontana anche nei ricordi, mentre ahimè,
essa è nel cuore della Patria. Povera Italia!!!" E il 30: "Con
provvedimenti odierni, Ciano e Grandi vengono messi a riposo e così
anche al mio Ministero comincia l’opera di persecuzione. Dimenticare le
benemerenze di Grandi come Ambasciatore, mi sembra enorme! Attendo sereno
il mio turno".
In realtà, nessuno rimuove Mazzolini. Che
dal suo punto di osservazione, nonostante i contatti frequenti con colleghi
ed esponenti politici, non ha sentore di quanto sta accadendo. Non sa dell’armistizio
firmato il 3 settembre, quando annota: "Gli angloamericani stanno
sbarcando in Calabria. Il calvario continua. Mentre la Patria è
lacerata nella sua carne viva, l’antifascismo tornato alla ribalta senza
suo merito, gozzoviglia nelle persecuzioni".
Come per tutti gli italiani, anche per Mazzolini
il giorno della verità è l’8 settembre: "Il Governo
Badoglio ha capitolato. La resa, senza condizioni, viene annunziata da
Radio Londra ed alle 20.00 con un breve proclama letto a Roma dal Capo
del Governo. Ore tristissime che strappano il pianto, lacerano l’animo
e rendono ebeti. La folla grida evviva, ignara delle umiliazioni, delle
pene ancor più gravi che ci attendono. Attaccati alla radio ascoltiamo
gli ordini che, da Tunisi e da Alessandria, i comandanti militari inglesi
impartiscono alle nostre navi da guerra e mercantili, alle nostre divisioni
dislocate nei Balcani, alle nostre forze aeree. La resa è decisa
dal giorno 3. I tedeschi, con un secco comunicato, prendono atto dell’infame
tradimento, ma annunciano di avere preso da tempo le misure militari, atte
a fronteggiarlo. Povera Italia!"
I giorni seguenti sono per Mazzolini, impotente a
Gubbio, i giorni del dolore. Il 9 scrive: "Una cosa è certa:
l’armistizio non ha allontanato la guerra dal suolo della Patria che continua
ad essere lacerato con l'aiuto adesso dei tedeschi, infuriati per il nostro
vigliacco tradimento. Alla faccia dei festeggiamenti. E poiché tutto
questo era prevedibile, la gente di buon senso già si chiede perché
Badoglio lo abbia fatto!" E il 10 settembre: "Roma è già
stata occupata dai tedeschi e non si riesce più a sapere dove sia
Badoglio. Le trattative con i tedeschi sono state condotte prima da Caviglia,
poi da Calvi di Bergolo, che le ha concluse. I tedeschi si sono impadroniti
di tutte le più importanti città del settentrionale per ostacolare
l’avanzata degli anglo americani sbarcati a Napoli. Mille voci contraddittorie
si accavallano e c’è da diventare pazzi. Assistere all’agonia della
Patria, senza scoprire un raggio di sole che consoli, è penosissimo.
Meglio morire che vivere così!"
"Agonia della Patria", morte della Patria.
Sessant’anni dopo le valutazioni possono e debbono essere diverse. Ma per
capire cosa avvenne in quei mesi e nei due anni successivi, il diario di
Mazzolini è illuminante. Non è un uomo qualunque. Le regole
della politica e delle relazioni internazionali gli appartengono. Eppure
sembra sopraffatto dagli eventi. "Anche oggi – scrive l’11 settembre
– viviamo giornate di martirio. Radio Roma non parla. Viviamo attaccati
alla radio ed ascoltiamo Colonia da dove parla il Governo Nazionale Fascista.
Riconosco la voce di Alessandro Pavolini in un commento al discorso di
Hitler. Radio Vichy e Radio Londra danno le notizie più disparate.
(…) Qui a Gubbio incoscienza beata".
Poi, giorno dopo giorno, la situazione gli appare
più chiara. E continua a preoccuparlo. Il 12 scrive: "Gente
venuta da Roma, parla delle drammatiche ore vissute dalla Capitale negli
ultimi giorni. Il Re e Badoglio, hanno lanciato proclami questa notte da
una località sconosciuta, ma poiché a trasmetterli è
stata Radio Palermo, si pensa che siano presso il Comando Supremo Alleato.
Il nemico ha oggi occupato Brindisi. I termini dell’armistizio, resi noti
da Londra, fanno accapponare la pelle tanto sono umilianti. Verso mezzanotte,
Radio Roma comunica la sensazionale notizia secondo la quale il Duce sarebbe
stato salvato dalla prigionia, da paracadutisti tedeschi e da formazioni
di SS". E il 13: "La notizia della liberazione del Duce produce
impressione enorme. Anche qui a Gubbio si nota un radicale mutamento, specie
tra gli antifascisti. Marvardi, venuto da Roma, racconta episodi di disfacimento
del nostro esercito, veramente orribili. Povera Italia! Perugia e Firenze
sono in mano tedesca. Il presidio di Gubbio si disfa in poche ore. I soldati
se ne vanno per loro conto e la gente osserva e si compiace!"
È la penosa sensazione di una Patria abbandonata
a se stessa che convincerà il monarchico Serafino dei conti Mazzolini,
ministro plenipotenziario di S.M. il Re, a diventare il sottosegretario
agli Esteri della Repubblica di Salò. La penosa impressione di quei
giorni eugubini. "Quando ci alziamo – scrive il 14 settembre – troviamo
affissi per le cantonate, manifesti in lingua italiana e tedesca. Siamo
sotto il controllo germanico! Coprifuoco alle nove, consegna delle armi,
denuncia degli automezzi e della benzina. Che pena! L’Italia dei nostri
sogni, è tramontata! I tedeschi in Russia continuano a ritirarsi.
Nessuna notizia del Duce e dei suoi propositi. A Roma i Ministri del fuggiasco
Badoglio, continuano a…. lavorare. Il presidio di Gubbio è ridotto
ai minimi termini. A Gubbio rientrano i soldati fuggiaschi e messi in libertà
da tutti i presidi". La "morte della Patria", appunto. Due
settimane dopo, il 28 settembre, l’incontro con Mussolini alla Rocca delle
Caminate. E poi l’avventura repubblichina. Convinto ancora di servire la
Patria. "Regio e monarchico nell’investitura e nell’abito: ma patriota
sotto pelle. Fu con noi – così lo commemorò Paolo Fabbri
alla radio saloina – rinunciando al Re per non rinunciare a una Patria
libera e degna".
Da "IL GIORNALE DELL'UMBRIA" Quotidiano, 22
agosto 2004